Francesca Pennacchi

❝Oggi Miriam si è svegliata con la febbre molto alta, delira, ed è una fortuna che un cliente del ristorante sia un medico e non abiti lontano, così posso correre da lui, anche se è mattino presto, e lo accompagno a casa, dove Miriam giace nel letto tutta rossa e respira con affanno; è un signore molto simpatico questo dottore che, quando mi chiama perché gli porti il menù, grida “Angelo del Paradiso, vieni subito da me e portami i cibi più buoni! ” e poi mi promette che farà ritornare il mio babbo, così non dovrò più fare la cameriera, e che chiamerà il diavolo perché si porti via quella strega della ‘zia’ Mina. Mia sorella ha la difterite e verrà l’autoambulanza per portarla all’ospedale; purtroppo anch’io e la mamma dobbiamo essere ricoverate in ‘quarantena ‘ perché la difterite è una malattia molto contagiosa e pericolosa. Mi trovo divisa tra sentimenti contrastanti: sono assai preoccupata e addolorata per mia sorella, ma sono quasi felice di trovarmi nell’autoambulanza così vicina alla mamma e a Miriam, sento più intenso il nostro affetto; però gli occhi verdi della mamma, ancora più verdi nel viso pallidissimo, hanno un’espressione disperata; guardando lei provo sgomento, dolore, angoscia, e capisco che mia sorella è veramente grave, forse in pericolo di vita; vorrei sfogare in lacrime questo mio stato d’animo, ma voglio essere forte in questo momento.
Mentre l’autoambulanza si allontana e ci porta via, sento quanto siamo sole in questa terra non nostra, lontane dalle nostre radici, dove non abbiamo nessun punto di riferimento, come se ci trovassimo sole in un oceano senza confini… guardo la strada che ci porta chissà dove… la ‘zia’ Mira, quando è venuta a vedere come mai la mamma non era andata a lavorare ed ha saputo che dovevamo essere ricoverate tutte e tre in ospedale, è stata piuttosto dura con noi, non ha mostrato dolore e neppure preoccupazione, ma solo rabbia perché, oltre a perdere tre persone per il lavoro al ristorante, dovrà ricorrere a tutte le sue conoscenze importanti per non chiudere il locale. Nessuno si occuperà di noi; se dovessimo morire spariremmo come se fossimo niente; il babbo forse non riuscirebbe mai a sapere dove siamo andate a finire… Entriamo attraverso un alto cancello di ferro in un vasto parco, nel quale si intravvedono numerosi edifici bianchi tra il verde degli alberi: è l’ospedale ‘Duca degli Abruzzi’ ed io ho l’impressione di uscire dal mondo per essere rinchiusa in chissà quale misteriosa dimora… forse sto vivendo in una fiaba, che poi avrà un buon fine, come tutte le fiabe che mi raccontava la nonna, forse non è vero che Miriam sta così male, forse all’interno di questo grande parco c’è un castello nel quale siamo attese perché si viva una vita felice fino al ritorno del babbo… ma veniamo divise: mia sorella deve essere isolata ed io e mamma saremo portate in un qualche edificio dei tanti sparsi tra gli alberi; ora la mamma piange, le lacrime le scendono silenziose sul viso pallido e io vorrei farle coraggio, invece singhiozzo e non capisco come si possa piangere così silenziosamente come fa lei; il suo braccio intorno alle mie spalle mi fa sentire un po’ meglio… se dovesse mancarmi la mamma credo che mi lascerei morire! Come si sentirà Miriam tutta sola e tanto ammalata? Lei è forte e coraggiosa, è tutto quello che io non sono e che vorrei essere, però il pensiero di lei in un anonimo edificio senza la possibilità di vedere me e la mamma mi fa stare molto male.

Veniamo condotte verso un fabbricato basso e lungo fatto di mattoni tinti di calce bianca; il lungo muro è interrotto ogni tanto da finestre strette e alte, che sembrano guardarci freddamente; è l’ultimo dei numerosi fabbricati uguali che si susseguono l’uno vicino all’altro, formando un quartiere silenzioso e triste, diviso con un raccapricciante reticolato rugginoso da una specie di accampamento formato da capanne e tende da campo, dove, ci viene detto, sono tenuti gli abissini malati delle più strane malattie.. Io mi chiedo se le malattie che colpiscono i negri siano diverse dalle malattie che colpiscono i bianchi e perché loro siano tenuti in quel luogo ancora più triste e squallido del già tanto triste e squallido fabbricato in cui dovremo entrare io e la mamma.
Ci viene incontro un infermiere abissino, ci guarda con espressione preoccupata e dice: “Signora, portare via bambina di qua! Qua essere gente con tifo petecchiale!” La mamma mi attira a sé e risponde sgomenta, con voce tremante: “Mi hanno accompagnata in questo reparto, forse hanno sbagliato, noi non siamo ammalate, dobbiamo essere tenute in contumacia.”; guarda l’uomo, il giovane infermiere che ci ha condotto qua, con la speranza che lui possa aiutarci, ma lui si limita ad allargare le braccia: dobbiamo proprio essere ricoverate in questo reparto perché altrove non c’è posto. Veniamo introdotte in una stanzetta stretta stretta nella quale ci stanno appena due brande ed una sedia smaltata di bianco; è un ambiente pulito e odoroso di calce data da poco, però la mamma offre ugualmente all’infermiere negro, ancora più nero nel camice bianchissimo, del denaro, perché disinfetti con creolina pavimento e pareti; lui, spaventato, risponde alla richiesta della mamma che la suora lo punirà per questo, ma, allettato dai soldi, spruzza ovunque il disinfettante e poi ne elimina le tracce con uno straccio, sperando di ingannare gli occhi scrutatori della suora.
Ora questa è la nostra nuova dimora; dalle stanze vicine giungono fino a noi lamenti strazianti di gente che soffre molto… più che lamenti sono grida strozzate, grida che a stento riescono ad uscire dalla gola per portarsi via un po’ di sofferenza, come se trovassero l’ostacolo di una lingua troppo ingrossata. Il solito infermiere, pensando di incoraggiarci, dice con indifferenza: “Loro morire di tifo petecchiale, voi non ascoltare!” La mamma ed io non parliamo, non troviamo niente da dire, ogni nostro pensiero è triste, e la mancanza di Miriam è un vuoto dentro di noi e intorno a noi. Non possiamo far niente per gli ammalati che soffrono nelle stanze vicine e neppure per noi stesse, non possiamo neppure sperare che qualcuno ci aiuti perché non abbiamo nessuno… ma la mamma è vicino a me e certamente lei sa cosa fare! “Non avere paura, mi ripete, ora farò cercare il dottor Moscatelli, lui ci aiuterà anche ad avere notizie di tua sorella.” Dopo un momento di silenzio aggiunge: “Quelle persone che si lamentano così dolorosamente stanno peggio di noi; dobbiamo pregare per loro e anche per Miriam e vedrai che tutto si aggiusterà.” Già, non è vero che non abbiamo nessuno: c’è il dottor Moscatelli e poi c’è sempre Gesù; sento di nuovo il calore della fiducia e penso: “Domani capiterà qualcosa di bello! Quel Sacro Cuore che la mamma porta sempre con sé e che ora è qui, sulla sedia bianca, non è solo un ritratto; fin da quando ho imparato a pregare ho pregato inginocchiata davanti a Lui ed ho sentito su di me il suo sguardo pieno di tenerezza; anche ora ci aiuterà.” Dietro ai lamenti, che prima hanno suscitato in me paura e quasi ribrezzo, vedo delle persone, sento la loro sofferenza e prego per loro.

È mattino; ho dormito, malgrado tutto, tranquillamente; apro gli occhi e vedo subito la mamma seduta accanto a me; sono sicura che è stata così, seduta vicino a me, tutta la notte! Quando mi vede sveglia mi invita a dire le preghiere del mattino assieme a lei, poi mi lava, mi pettina e mi prega di restare a letto tranquilla mentre lei va a cercare il padiglione in cui hanno messo Miriam, che in qualche parte di questo vastissimo ospedale dovrà pur essere. “Stai qua buona, mi dice, la troverò tua sorella, e nessuno me lo potrà impedire! Tornerò presto.” Esce così determinata che sembra un conquistatore. Io provo un po’ di sgomento a rimanere sola, ma capisco che è necessario avere notizie di Miriam. Le ore passano e mamma non ritorna; è già venuto il dottor Moscatelli e mi ha ordinato di stare a letto perché mi sta venendo uno dei miei soliti attacchi di asma e mi lascia una pasticca da prendere qualora l’attacco fosse acuto, poi se ne va, soffermandosi sulla porta per dirmi sorridendo. “Saluta la mamma, spero che abbia trovato tua sorella!” Finalmente si apre la porta ed entra la mamma: è affannata e mi sembra anche spaventata, per cui la sommergo di domande: “L’hai trovata? Dov’è? come sta?” “Certo che l’ho trovata! L’hanno messa nel reparto delle malate di mente, quei deficienti! Anche se ha una cameretta tutta per sé, quella poverina ha paura, perché ogni tanto qualche pazza riesce ad eludere la sorveglianza ed entra nella sua camera… ma come si può mettere una bambina tra le pazze e noi tra gli ammalati di tifo petecchiale?” Parla con rabbia; difficilmente la mamma si comporta così, forse è la paura che ha preso anche lei e che io sento crescere in me. Mi guarda, si accorge che respiro con difficoltà, mi viene vicino, mi abbraccia e, col suo solito tono pacato, conclude: “La febbre le si è abbassata, e questo è importante; tutto andrà bene, Dio ci aiuterà; ora prendi la pasticca per la tua asma!” Mi tranquillizzo; quando ho la mamma accanto a me, così serena, sono convinta che niente potrà mai andare male.

Il dottor Moscatelli sta facendo molto per noi, e ciò ci fa pensare con sollievo che non siamo poi così sole come pensavamo, impreca perché la Direzione dell’ospedale ci ha ricoverate in questo reparto, riservato alle persone gravemente infette, per allontanarci da Miriam perché a sua volta infetta, mentre lei si trova tra le malate di mente, come se quelle poverette non possano attaccarsi la difterite; promette che appena mia sorella starà meglio ci farà tornare a casa tutte e tre prima dei quaranta giorni.
Sono passati venti interminabili giorni e finalmente ce ne possiamo tornare a casa, ma non potremo andare a scuola perché ancora in contumacia. Siamo di nuovo tutte e tre insieme e ciò è meraviglioso! Le due piccole stanzette sperdute nel bosco sono veramente squallide così in disordine come le hanno lasciate quelli della disinfezione; solo per un attimo ci fermiamo a guardare sgomente, poi la mamma entra decisa e si mette subito a riordinare; siamo un po’ abbattute, ma il vecchio autista, che entra silenzioso con un mazzolino di fiori e un sorriso per darci il benvenuto, ci riscalda il cuore… c’è sempre qualcuno, ovunque, che ci vuole bene e pensa a noi. grazie, Dio!❞.

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(dalla memoria di Francesca Pennacchi, conservata presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano)
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L’avventura coloniale vissuta da una bambina di otto anni. Cercando di ricostruire lo spirito della sua adolescenza, un’insegnante toscana ricorda i quattro anni trascorsi in Africa Orientale, quando parte con la madre e la sorella dalla Toscana per raggiungere il padre in Etiopia. Lui sarà richiamato in guerra e loro tre affronteranno i disagi di un lungo viaggio fino alla prigionia sotto gli inglesi, prima del rimpatrio. La scoperta dei colori, il fascino di una terra misteriosa, segnano il passaggio verso la maturità.