Stefano Pucci

❝II Cholera, questo flagello spaventevole, ignoto, inesplicabile, misterioso, aveva dall’India sua nativa, fino al 1837 rispettato il nostro continente. Allora, per Ia prima volta, apparve in Italia, e Napoli fu sterminata. Nella giornata di S. Pietro e Paolo morirono 1800 persone. La desolazione, il terrore, Ia miseria non si videro mai nella bella Partenope dominare con furia uguale a quella del 37. Non mancò la carità cittadina di accorrere in sollievo di tanto flagello. II Cardinale Sisto Riario Sforza, bello della persona, nobile per nascita e per cuore fece opere sovrumane. Quand’ebbe esaurita tutta la rendita della Mensa, chiese a Roschild in prestanza dodici mila ducati, e con questi sovvenne i poveri, le vedove, i pupilli, i detenuti. Quando, dopo tempo, raggranellata la somma, voile restituirla, il Roschild, non meno generoso di lui, non voile riceverla, e lo prego di farne elemosina. II Cardinale Riario fu il Borromeo de’ suoi tempi. Dovrei troppo diffondermi, se tutti volessi narrare i fatti di quel tempo dolorosissimo: il che non saprei perfettamente, perché nel 37 stavo a Monteleone, dove il morbo asiatico non giunse, e perché pur sapendolo fare, uscirei da’ limiti brevissimi di queste memorie. Nel 1854, avemmo dunque, la seconda invasione cholerica. L’annunzio del flagello mi scosse oltre misura l’animo. Credetti esser venuta l’ora mia, e decisi, fra le morti che numerose avvenivano in Cava, di astenermi dal mangiare oltre il più stretto bisogno, e di bevere acqua solamente. Eravamo in Luglio Agosto, e facevo abusi di bagno, cibandomi scarsamente. Un tal sistema dietetico mi cagiono una fiera malattia intestinale e in dissenteria sanguigna e divenni un cadavere ambulante. I medici mi prescrissero la cura di latte d’asina, ed a stento, dopo alquanti mesi, mi riebbi come Dio volle. Durante la malattia, e mentre ero estenuato, intisichito, debolissimo, fui contristato da un periglioso avvenimento. Un bel giorno, verso le 10 a.m. mi vidi aggredito in Casa, da una trentina di persone che mi conducevano arrestato un monello diciottenne sorpreso in flagranza mentre con una sostanza bianca nelle mani voleva frammischiarla alle acque della pubblica fontana di Pregiato. Interrogato da quel cittadini, che già temevano di veleni ed avvelenatori, seppero ch’egli il monello aveva commissione di avvelenare quelle acque. La notizia tremenda si sparse come un baleno, e preso il monello, mi fu condotto d’innanzi. Immantinente feci chiamare tre periti chimici, i quali, analizzata quella sostanza, mi affermarono essere 1800 acini di arsenico bianco. Interrogato da me il monello, seppi chiamarsi Luigi di Giacomo, cenciaiuolo, della Molina, e seppi d’aver avuto il veleno da certo D. Gennaro di Mauro dello stesso Comune. Compilai ii processo in 15 giorni. La Corte Criminale di Salerno, assolse il Di Giacomo e condannò il Di Mauro a 13 anni di ferri nel presidio, dove morì.
Questo processo, ed il giudizio definitivo, allarmò il Regno. Era la prima volta che si riuscisse, in tempi d’epidemia, a scoprire veleni ed avvelenatori. Nel Salernitano, e nella Basilicata, vi furono movimenti pericolosi fra le popolazioni. lo corsi pericolo d’essere destituito per proposta dell’Intendente di Salerno, Commendatore Giuseppe Valia, già Tenente Colonnello di Gendarmeria, poliziotto in carne ed ossa. Sarebbe stato meglio per me, perché seguendo I’esempio del Tajani, sarei andato in Piemonte, ed oggi non sarei miserabile come sono. La Citta di Cava invece voleva mettere, a mia onoranza, una pietra commemorativa, come colui, che con la massima abnegazione, aveva salvata la popolazione da immensa moria, essendo che i periti chimici dedussero che quella quantità di arsenico avrebbe dovuto produrre la morte di migliaia di persone. Specialmente di Pregiato, tra le quali sarebbe capitata anche la mia famiglia. Come Dio voile il Cholera cessò, e passai ad abitare, come ho detto in piazza.❞

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(dalla memoria di Stefano Pucci, conservata presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano)
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Un illustre avvocato, figlio di un Commissario di guerra nelle Calabrie e cresciuto coltivando l’amore per lo studio delle materie classiche, scrive la sua autobiografia per alleviare i momenti di sconforto per colpa di un matrimonio infelice. Inizia la sua carriera in Campania e oltre a ripercorrerne le tappe racconta il Risorgimento napoletano. È stato il fautore del primo processo alla Camorra.